Un ombrello pazzo da legare
Da due mesi il meteo annunciava pioggia, ma nel cielo si ostinava a splendere il faccione giallo del sole. Tutti i giorni avevo portato l’ombrello con me al lavoro, ma quel pomeriggio lucido di primavera, decisi di lasciarlo a casa. È un peso inutile, pensai, e lo infilai nel portaombrelli.
Mentre chiudevo il cancelletto mi sentivo inquieta, come se qualcuno mi spiasse da una finestra o da un balcone. Alzai lo sguardo verso le finestre dei vicini, ma il riverbero del sole contro i vetri mi costrinse a chiudere gli occhi. Barcollai un momento e notai stupita che il mio ombrello rosso mi stava accanto, a pochi centimetri dalla mano destra. Mi chiesi come potesse stare in equilibrio sulla punta, visto che nessuna mano lo stava afferrando, ma subito lasciai perdere perché era tardi e dovevo andare al corso di scrittura creativa. Presi l’ombrello e lo lanciai nel giardino di casa, oltre il cancello. Iniziai a correre lungo la strada perché l’autobus era già alla fermata.
Per un soffio riuscii a saltare sul gradino e, voltandomi esausta, scorsi l’ombrello incastrato tra le porte. L’autobus non si muoveva. L’autista mi fissava irritato nello specchietto e vidi le sue labbra articolare una parolaccia. Le porte si riaprirono, afferrai l’ombrello e, desiderando essere invisibile, mi nascosi tra due sedili con il mio stupido ombrello in mano. Gli altri passeggeri mi fissavano increduli, vedendomi con un oggetto del genere in un giorno così soleggiato. Mi risultò piuttosto consolatorio pensare che una mia compagna del corso di scrittura creativa poteva avermi prestato l’ombrello e io dovevo restituirlo.
Decisi di abbandonarlo sull’autobus, ma che ci crediate o no, scese insieme a me. Lungo il tragitto a piedi provai a perderlo in diversi modi: lo lasciai nel portaombrelli di un bar, ma poco dopo comparì al mio fianco; lo abbandonai vicino a un’aiuola pubblica, ma in un attimo me lo ritrovai di nuovo vicino.
Quando arrivai a destinazione, lo nascosi dietro il portone di ingresso del vecchio palazzo in centro città in cui si teneva il corso. Ma dopo aver salito le scale lo trovai appoggiato alla porta dell’aula. Per evitare lo sguardo curioso dei miei compagni di corso, strinsi l’ombrello al fianco. Lui era così contento che si lanciò in una piroetta di gioia, mezzo aperto, mentre le mie guance si infiammavano.
La lezione procedeva nel migliore dei modi. Il nostro insegnante Fiorenzo accennò allo stile di D’Annunzio. Avevo trovato questo autore talmente interessante anche durante gli anni scolastici che iniziai a pensare ai miei impegni del giorno successivo. Perfino l’ombrello sbadigliò rumorosamente stiracchiandosi sotto la mia sedia.
A un certo punto Fiorenzo lesse i versi di una poesia: ‘Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse’.
L’ombrello, emozionato dai riferimenti meteorologici di quelle parole, scattò in piedi.
La signora cicciottella che mi sedeva accanto, bisbigliò: ‘Ho perso di tutto nella mia vita: ombrelli, chiavi, ricordi’, poi sospirò. ‘Mai che abbia perso qualche chilo’.
L’ombrello si tuffò in una coreografia di passi brevi e rapidi.
Giovanni, da buon complottista qual era, ci tenne a rivelarmi che l’ombrello era un ribelle: ‘Si vuole vendicare di tutti i suoi simili dimenticati in giro per il mondo.’
All’improvviso l’ombrello sbocciò come un papavero in un campo assolato, aprendo i suoi petali in un’esplosione di fuoco.
Marta, un’altra compagna di corso, urlò di paura, sostenendo che un ombrello aperto in un luogo chiuso portava sfortuna. Ci vollero tre persone per tranquillizzarla.
Fui obbligata a spiegare a una decina di compagni che dovevo portarlo a casa, poiché l’avevo dimenticato al lavoro. Vidi dieci sguardi di compatimento perché erano due mesi esatti che non pioveva.
Fino alla fine della lezione fui costretta a tenerlo imbrigliato tra le mie ginocchia. Lo sentivo dimenarsi. Dai borbottii trapelava tutto il suo disappunto per quella prigionia.
Alla fine dell’ora di lezione Fiorenzo, come d’abitudine, ci assegnò un racconto da scrivere per la settimana successiva.
Al ritorno verso casa mi ritrovai sull’autobus guidato dallo stesso autista dell’andata, che mi scrutava sfacciato dallo specchietto retrovisore. L’ombrello dispettoso, incastrandosi tra due sedili, cercò di far inciampare una candida vecchina, che si stava alzando dal suo posto. L’anziana signora, sputacchiando bestemmie che per nulla si addicevano al suo gentile aspetto, augurò a me e a tutti i miei familiari una morte istantanea.
Entrai in casa. Dopo la disavventura del pomeriggio una pioggia di idee aveva innaffiato il deserto della mia creatività: l’ombrello mi aveva regalato una storia per il racconto da leggere al prossimo incontro del corso di scrittura creativa.
Legai l’ombrello al portaombrelli con cinque cinture e meditai di restare chiusa in casa a scrivere fino a quando non fosse piovuto a catinelle.
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Racconto di Greta Tamburini
Selezione del Concorso letterario Il Cavedio "Il mio corso di..." 2022
Da due mesi il meteo annunciava pioggia, ma nel cielo si ostinava a splendere il faccione giallo del sole. Tutti i giorni avevo portato l’ombrello con me al lavoro, ma quel pomeriggio lucido di primavera, decisi di lasciarlo a casa. È un peso inutile, pensai, e lo infilai nel portaombrelli.
Mentre chiudevo il cancelletto mi sentivo inquieta, come se qualcuno mi spiasse da una finestra o da un balcone. Alzai lo sguardo verso le finestre dei vicini, ma il riverbero del sole contro i vetri mi costrinse a chiudere gli occhi. Barcollai un momento e notai stupita che il mio ombrello rosso mi stava accanto, a pochi centimetri dalla mano destra. Mi chiesi come potesse stare in equilibrio sulla punta, visto che nessuna mano lo stava afferrando, ma subito lasciai perdere perché era tardi e dovevo andare al corso di scrittura creativa. Presi l’ombrello e lo lanciai nel giardino di casa, oltre il cancello. Iniziai a correre lungo la strada perché l’autobus era già alla fermata.
Per un soffio riuscii a saltare sul gradino e, voltandomi esausta, scorsi l’ombrello incastrato tra le porte. L’autobus non si muoveva. L’autista mi fissava irritato nello specchietto e vidi le sue labbra articolare una parolaccia. Le porte si riaprirono, afferrai l’ombrello e, desiderando essere invisibile, mi nascosi tra due sedili con il mio stupido ombrello in mano. Gli altri passeggeri mi fissavano increduli, vedendomi con un oggetto del genere in un giorno così soleggiato. Mi risultò piuttosto consolatorio pensare che una mia compagna del corso di scrittura creativa poteva avermi prestato l’ombrello e io dovevo restituirlo.
Decisi di abbandonarlo sull’autobus, ma che ci crediate o no, scese insieme a me. Lungo il tragitto a piedi provai a perderlo in diversi modi: lo lasciai nel portaombrelli di un bar, ma poco dopo comparì al mio fianco; lo abbandonai vicino a un’aiuola pubblica, ma in un attimo me lo ritrovai di nuovo vicino.
Quando arrivai a destinazione, lo nascosi dietro il portone di ingresso del vecchio palazzo in centro città in cui si teneva il corso. Ma dopo aver salito le scale lo trovai appoggiato alla porta dell’aula. Per evitare lo sguardo curioso dei miei compagni di corso, strinsi l’ombrello al fianco. Lui era così contento che si lanciò in una piroetta di gioia, mezzo aperto, mentre le mie guance si infiammavano.
La lezione procedeva nel migliore dei modi. Il nostro insegnante Fiorenzo accennò allo stile di D’Annunzio. Avevo trovato questo autore talmente interessante anche durante gli anni scolastici che iniziai a pensare ai miei impegni del giorno successivo. Perfino l’ombrello sbadigliò rumorosamente stiracchiandosi sotto la mia sedia.
A un certo punto Fiorenzo lesse i versi di una poesia: ‘Ascolta. Piove dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse’.
L’ombrello, emozionato dai riferimenti meteorologici di quelle parole, scattò in piedi.
La signora cicciottella che mi sedeva accanto, bisbigliò: ‘Ho perso di tutto nella mia vita: ombrelli, chiavi, ricordi’, poi sospirò. ‘Mai che abbia perso qualche chilo’.
L’ombrello si tuffò in una coreografia di passi brevi e rapidi.
Giovanni, da buon complottista qual era, ci tenne a rivelarmi che l’ombrello era un ribelle: ‘Si vuole vendicare di tutti i suoi simili dimenticati in giro per il mondo.’
All’improvviso l’ombrello sbocciò come un papavero in un campo assolato, aprendo i suoi petali in un’esplosione di fuoco.
Marta, un’altra compagna di corso, urlò di paura, sostenendo che un ombrello aperto in un luogo chiuso portava sfortuna. Ci vollero tre persone per tranquillizzarla.
Fui obbligata a spiegare a una decina di compagni che dovevo portarlo a casa, poiché l’avevo dimenticato al lavoro. Vidi dieci sguardi di compatimento perché erano due mesi esatti che non pioveva.
Fino alla fine della lezione fui costretta a tenerlo imbrigliato tra le mie ginocchia. Lo sentivo dimenarsi. Dai borbottii trapelava tutto il suo disappunto per quella prigionia.
Alla fine dell’ora di lezione Fiorenzo, come d’abitudine, ci assegnò un racconto da scrivere per la settimana successiva.
Al ritorno verso casa mi ritrovai sull’autobus guidato dallo stesso autista dell’andata, che mi scrutava sfacciato dallo specchietto retrovisore. L’ombrello dispettoso, incastrandosi tra due sedili, cercò di far inciampare una candida vecchina, che si stava alzando dal suo posto. L’anziana signora, sputacchiando bestemmie che per nulla si addicevano al suo gentile aspetto, augurò a me e a tutti i miei familiari una morte istantanea.
Entrai in casa. Dopo la disavventura del pomeriggio una pioggia di idee aveva innaffiato il deserto della mia creatività: l’ombrello mi aveva regalato una storia per il racconto da leggere al prossimo incontro del corso di scrittura creativa.
Legai l’ombrello al portaombrelli con cinque cinture e meditai di restare chiusa in casa a scrivere fino a quando non fosse piovuto a catinelle.
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Racconto di Greta Tamburini
Selezione del Concorso letterario Il Cavedio "Il mio corso di..." 2022